Arte e Critica Anno 16 Numero 64 settembre-novembre 2010
ATTRAZIONE. Il suono è attraente. Cattura l’orecchio. Incanta. Disturba. Orienta. Spaventa. Ma è anche imperativo. Il suono è al contempo mezzo e fine. Il decisivo interesse riservato alla “strana” riflessività del suono come paradossale istanza dell’arte, della musica e della filosofia del Novecento ha favorito la nascita di un vero e proprio “paradigma dell’ascolto” da cui prenderemo le mosse per rintracciare l’emergenza di una categoria concettuale dell’arte plastica denominata Sound Art: arte del suono che, riflettendo su di sé, definisce storicamente il suo stesso ambito.
ASCOLTARE. Partiamo dalle condizioni. Noi non udiamo perché abbiamo orecchi. Il suono ci colpisce laddove la nostra ricettività è già un movimento in direzione del “dato” sonoro. Questo carattere di soglia “affettiva” di ogni suono si affaccia nell’arte il 29 agosto 1952, con la prima esecuzione di 4’33” di John Cage, un “brano silenzioso” in tre movimenti (30’’, 2’23’’, 1’40’’), scanditi dalla chiusura e riapertura della tastiera del piano di David Tudor. L’evento è epocale. Prestare ascolto nel suo carattere preterintenzionale ci costringe ad assumere un carattere “eventuale” del suono, che avviene tra me e le cose, tra me e gli altri; è un suono che si origina “altrove” per quanto ve ne siamo implicati. Alla prima di 4’33’’ parteciparono il vento, la pioggia che cadeva sul tetto e le aspettative più o meno disattese delle persone presenti.
ATTENZIONE. Il fenomeno dell’attenzione, nella modalità dell’ascolto, vive di una tensione temporale che si manifesta alla percezione come “durata”. Se il minimalismo esplora la temporalità dell’opera nel suo contrarsi differenziale, al limite tautologico, la Sound Art esplode in seno all’arte visiva, a partire dal “vagito” di un’arte performativa, dove la voce, non più intesa come “espressione” bensì come “strumento di riflessione”, trasforma il corpo in un luogo “risuonatore”. L’estraneità si “fa sentire” nella nostra stessa voce: ci rimbomba nelle orecchie, si sdoppia nell’eco e si raddoppia nell’ascolto della voce estranea. Ascoltiamo il Cough Piece (1961) di Yoko Ono: nel tossire incontrollato ma ripetitivo s’intuisce questa prima incorporazione del suono come soglia che risuona tra interno ed esterno. Vito Acconci con Seedbed (1971) esplora questa etero-affezione della voce in un regime erotico di orgasmo pubblico. La “semina” si tiene alla Galleria Sonnabend di New York dal 15 al 29 gennaio, 1971, otto ore al giorno. Acconci, nascosto sotto una rampa, si masturba ascoltando il rumore dei passi dei visitatori, resi consapevoli dell’azione che eccita il processo di creazione, attraverso la vocalizzazione amplificata delle fantasie sul pubblico. Il suono della voce è orgasmatico: intercorre tra proprio ed estraneo, orienta nello spazio, definisce confini reali e immaginati, sconfina l’uno nell’altro. La voce è materia di tempo. Al di là della rappresentazione. Qualche esempio emblematico: The Idea of North (1967), il primo episodio di una “trilogia della solitudine” di Glenn Gould che isola l’identità “canadese” in una geografia mentale, ricostruita mediante il contrappunto di voci radio stratificate come un treno in corsa. Sonorizzare il luogo (Grand Tour) 1989-2001 di Luca Vitone dove il folklore musicale delle regioni italiane attiva un processo di generale spaesamento sonoro e attenzione alla specificità del luogo. Days (2009) di Bruce Nauman: sette voci, di genere differente, recitano in ordine sparso i giorni della settimana, creando un flusso continuo che evoca il trapasso banale dei giorni e contemporaneamente la profondità della commemorazione. La voce è politica in The Voice and the Fortress, (2008) di Mladen Dolar e compenetra i luoghi. E infine, la voce liturgica, quasi luttuosa in Mei Gui (2006-2009) di Roberto Cuoghi.
AMBIENTE. Il corpo è uno strumento che registra il suo ambiente. Uno storico esempio di corpo/ambiente “responsivo” è I am sitting in a Room (1969) di Alvin Lucier, opera “per voce e cassetta” che utilizza la risonanza naturale della stanza come feedback costruttivo. Il testo, registrato dall’artista su cassetta, viene riprodotto nella stessa stanza in un reiterato processo di playback-feedback-registrazione, fino a rimuovere le “irregolarità della voce” e rintracciare una frequenza di fondo. Total Eclipse (1976) è uno dei primi field recording di Bill Fontana. Documenta l’eclissi totale in una foresta tropicale. Negli istanti che precedono il black out, le differenti specie volatili iniziano a cantare all’unisono prima di eclissarsi improvvisamente in due minuti di silenzio. Emerge così un carattere interspecifico della dimensione dell’ascolto, e un’identità sonora del contesto vivente che può essere ridefinito e “scolpito” in un nuovo ambiente di senso. La vivace plasticità dei suoni ambientali si ritrova anche nei territori magnetici di Christina Kubisch, nelle risonanze di Terry Fox, che lavora con l’eco naturale di fili elettrici, scatolette metalliche, bacchette di legno. Mentre il lavoro di Stephen Vitiello si concentra sulle qualità più atmosferiche del suono per una riconfigurazione polimorfica degli ambienti esistenti, a partire dal suo progetto World Views (1999) basato sui suoni emessi dalla struttura dell’edificio, registrati al 91° piano del World Trade Center, fino al recente A Bell For Every Minute (2010) in cui campani e campanelli scandiscono il tempo di apparizione, facendo risuonare l’intermittente a fondo della trasmissione della memoria, non solo di New York.
AUDIENCE. Il carattere pubblico dell’ascolto, la spazialità del suono nella sua portata simbolica si manifestano nelle costruzioni che accolgono l’esperienza estetica del suono: dal teatro, alla sala da concerto, dalla galleria alla piazza, dal bosco all’auditorium. Ma in questione non è il suono nello spazio, né il suo accesso ad uno spazio più o meno codificato culturalmente, ma il suono di uno spazio senza tempo. In questo senso, i “sound works” di Max Neuhaus sono importanti per riflettere su questa co-appartenenza di spazio e di suono, che prescinde dal tempo, a partire dal luogo. Emblematico il lavoro del 1977 installato in modo permanente nell’isola pedonale di Times Square, a N.Y., già luogo simbolico della “polis”, nel transito vorticoso dei suoni. L’artista si mette in ascolto della piazza e interviene con un blocco sonoro armonico. Il complesso posizionamento del primo suono inizia un secondo processo di interferenza cinestetica, “tempo quadrato” in una nuova appercezione dello spazio, ricontestualizzato nell’ascolto localizzato dei passanti che transitano nel luogo. Il suono è anche un tappeto magico della fantasia come quello di Magic Carpet (1970) di Paul Klerr e Alvin Curran. Suoni site specific sono incorporati in Room Pieces (1991) di Michael J. Schumacher, fondatore della Galleria Diapason di New York “devoted to sounds”, e nelle “passeggiate sonore” di Janet Cardiff che riflettono sulle dinamiche contemplative dell’ascolto imbrigliato nella griglia spazio-temporale dell’immaginazione.
ACUSMATICA. Il suono è un corpo che ha carattere di evento diastatico, ossia ha una temporalità sintetica. Ascoltare qualcosa di determinato è già registrare qualcosa, selezione che contrassegna il suono in quanto tale e lo consegna alla possibilità del riconoscimento e della ripetizione, ben prima della teoria della Musique Concrete di Pierre Schaeffer. Ovviamente la radio, il nastro magnetico, il campionatore ecc. sono in grado di isolare, alterare e concentrare i processi di fruizione e distribuzione del suono. Ma in questa direzione “sintetica” si fa valere più una sorta di “critica” degli strumenti tradizionali e di ricerca percussiva, anche elettronica, che appartiene all’arte plastica, alla musica “colta” e a quella “popolare” e non ci sembra caratterizzare un ambito specifico di sperimentazione della materia sonora. Anzi. Dal Poème Électronique di Edgard Varèse (1957) al Kontakte (1960) per nastro a quattro piste, pianoforte e percussione di Stockhausen, al “phase-shifting” di Steve Reich di Come Out (1966), all’ipnotico Mescalin Mix (1961) di Terry Riley al Metal Machine Music (1975) di Lou Reed fino alle manipolazioni di Scanner, si assiste ad un tessuto intrecciato di suoni che rinnova la questione di un “senso comune” nell’ottica di un’etica “acusmatica”.
ACUSTICA. Orecchie occhi narici aperti! attenti! forza! Con l’invenzione delle macchine nacque il rumore, proclamarono i futuristi. Ma anche il desiderio di combinare lo scoppio di motori, ronzii, stropiccii, gorgoglii. La linea di demarcazione che intercorre tra suono e rumore, fino ad una estetica del noise, riposa anche nelle nostre attese. Rumori tecnologici/suoni della natura costituiscono le due facce della stessa medaglia più o meno armonica, mentre svelano nello spazio la loro matrice simbolica e il carattere di estraneità del suono che li accomuna. Di nuovo, in questo mondo/impero dei suoni, il vero discrimine di un’arte del suono è nella capacità d’indugio dell’opera, messa a distanza (reale o immaginata), estasi piegata nella dimensione dell’ascolto, in un’esperienza di slittamento tra spazio e tempo, attesa e sorpresa, che non sia il prodotto di un feticismo ambientale e di una nostalgia, alienata in “giardini pieni di suoni” e rumori.