Arte e Critica Anno 15 Numero 54 marzo-maggio 2008
Intervista a Massimiliano Fuksas
Massimiliano Fuksas è uno degli architetti italiani più noti a livello internazionale.
Dal progetto per il Centro Congressi dell’Eur, il cui cantiere è stato da poco avviato dopo infinite polemiche e difficoltà, al Museo dei Graffiti di Niaux, dalla Fiera di Milano allo Zenith di Strasburgo, appena inaugurato, Fuksas è noto al grande pubblico anche grazie alla straordinaria capacità di sensibilizzare i cittadini ai problemi dell’architettura contemporanea, attraverso progetti visionari che parlano il linguaggio dell’arte, in bilico tra un’installazione e un’opera cinematografica
Emilia Giorgi: Durante un incontro nel suo studio romano, abbiamo conversato di architettura, società e cultura, seguendo la suggestione offertaci da uno dei suoi riferimenti e fonte d’ispirazione, Il marinaio di Fernando Pessoa. Naufrago in un’isola deserta, il marinaio inizia ad immaginarsi una patria, lui che non aveva mai avuto radici. Non avendo nulla intorno, costruisce la sua città immaginaria partendo dal paesaggio e non dall’architettura...
Massimiliano Fuksas: È singolare che proprio uno scrittore riesca ad offrirci un’idea del costruire la città fortemente flessibile, in grado di adattarsi, forse anche inconsapevolmente, alle esigenze sempre variabili della società attuale. Noi architetti siamo soliti pensare alla città formata da elementi costitutivi come gli edifici, le infrastrutture, i quartieri; difficilmente riusciamo a pensare prima al paesaggio. Il marinaio del racconto di Pessoa, invece, attraverso l’irrazionalità del sogno fa esattamente l’inverso: inizia dal paesaggio e poi costruisce la sua città, pensando alle strade, le piazze e man mano ai suoi abitanti.
In tal modo, rifiuta la sterile abitudine dell’urbanistica moderna di progettare per modelli precostituiti, idonei a tutte le situazioni. La metropoli, così come l’architettura, deve riflettere i repentini cambiamenti della nostra società. A seconda delle esigenze, la città può svilupparsi in modo diffuso o in modo verticale; per mega-strutture o piccoli edifici, senza stupidi pregiudizi che limitino le tipologie costruttive.
A volte, progettando un master plan, ho rovesciato il metodo di urbanizzazione convenzionale, disegnando un paesaggio, in attesa che si presentasse la condizione economica favorevole alla costruzione.
Ma vorrei fare una precisazione, più che di semplice paesaggio, mi interessa parlare di geografia. Il primo è pur sempre una propria proiezione della realtà, è artificiale, mai reale come si crede. La geografia invece è un concetto stratificato, rappresentato da valori più complessi: non comprende solo il mare, gli alberi o il cielo, ma include l’uomo e l’economia.
L’oggetto del mio lavoro è esattamente la sommatoria di questi tre aspetti: economia, società, paesaggio.
La società, e quindi l’uomo, mi interessano enormemente. Il mio compito non è solo quello di costruire oggetti e funzioni, ma di migliorare la qualità della vita delle persone, offrendo emozioni. Un’architettura pensata in relazione alla dimensione umana, da un architetto che percepisce e restituisce forti sensazioni a chi l’abiterà. Il problema del paesaggio, o del contesto se preferiamo, resta comunque in primo piano. Non si tratta solo del paesaggio alberato, l’arcadia, penso soprattutto a quello delle periferie più disagiate, i luoghi difficili, quelli della disperazione. Nelle città europee, prima di lavorare sui centri storici, dove vive solo la minoranza della popolazione, abbiamo il dovere di prestare attenzione alle periferie urbane. È lì che vive l’uomo.
È di origini lituane, ma nato e vissuto a Roma. Ha abitato per dieci anni a Parigi, dove tuttora ha un grande studio e una casa di famiglia. Dove sono le sue radici?
Mi sento prima di tutto europeo. Mio nonno era lituano, mia nonna tedesca, ma nata a Strasburgo, mia madre romana. Anche io come il marinaio forse non ho radici, lavoro in tutto il mondo e mi sposto in continuazione, ma se dovessi pensare a una “patria” questa è Roma, non c’è dubbio. Mi sento fortemente romano. Mi rendo conto che nei momenti difficili della mia vita ho bisogno di tornare a Roma. Ho vissuto tantissimi anni a Parigi, chiamato da François Mitterand e Jack Lang (Ministro della cultura francese dal 1983 al 1993, n.d.r.) per partecipare, insieme ad un gruppo di architetti, alla ripresa della cultura in Francia dopo anni abbastanza oscuri: ho vinto diversi concorsi, realizzato molte opere, è lì che ho avuto l’occasione di affermarmi come architetto. Tuttavia nel 1997, proprio nel momento di maggiore notorietà, ho chiesto a mia moglie Doriana di riportarmi a Roma. Rischiavo che il successo mi “normalizzasse”, cancellando il mio istinto creativo.
Ho sempre avuto una forma di resistenza alla normalizzazione e ho sentito il bisogno di tornare nella mia città. A Roma mi sono subito organizzato con un grande laboratorio per fare modelli, uno spazio dove rintanarmi e pensare, e ho ricominciato a dipingere. Era quello di cui avevo bisogno.
Mi sono reso conto che da anni facevo sempre lo stesso progetto, e quel progetto era Roma. Roma è un’immensa fonte d’ispirazione, una grande scultura solcata da tracciati, tra spazi pieni e vuoti, compressione e dilatazione. Te ne accorgi dalla quantità di cielo che vedi alzando gli occhi dalla strada. La città per me è il percorso e la quantità di cielo che ritagliano le strade e gli edifici. La storia e la cultura di cui è intrisa la Roma antica è qualcosa che ormai fa parte di me, le ho imparate per poi dimenticarle. Sono entrate nel mio bagaglio per essere parti integranti della mia creazione, in qualsiasi luogo del mondo.
Se Fuksas fosse il marinaio raccontato da Pessoa, come immaginerebbe la sua città?
Disegnerei almeno 3 città: una città di dune, in parte sotterranee, in parte evidenti, senza aperture; una città di cristallo; una città di pietra completamente asimmetrica. Non ci vedo l’uomo dentro, sono città disabitate. O ancora, mi piace sognare una piccola porzione di foresta alluvionale, innaffiata automaticamente e osservabile solo dall’esterno, dentro la quale nessuno può accedere. Nel dormiveglia, quando a separare la realtà e il sogno c’è un foglio leggerissimo, immagino una città solo per me.
Sogna città inaccessibili ma afferma di progettare per l’uomo. Non le sembra una contraddizione?
L’inaccessibilità in alcuni casi è fondamentale. La foresta alluvionale ad esempio è bellissima ma al contempo estremamente fragile, va tutelata. Se chiunque potesse entrarci, si distruggerebbe. Per questo detesto il turismo, credo che sia la più grande calamità del Novecento. Visitando luoghi straordinari, come il Partenone o Machu Picchu, ho avvertito quasi un senso di colpa. E quindi, forse per reazione, nei sogni immagino una città inaccessibile, dove nessun turista possa entrare.
Anche il mio carattere, senza dubbio difficile, e il conseguente tentativo di isolarmi quasi quotidiano, lo dimostrano. Questo non mi impedisce assolutamente di lavorare per la comunità, interpretandone i bisogni, le aspirazioni. Non trovo che per un artista vivere isolato sia un paradosso; si può riflettere e offrire un servizio agli altri senza andare allo stadio tutte le domeniche.
Io inoltre sono un pedone, non uso l’automobile. Cammino attraverso la città, tra le persone e osservo i loro volti, percepisco la sofferenza, le difficoltà quotidiane, le emozioni. Cerco di creare edifici che le rappresentino, un’architettura in bilico tra estetica ed etica, proprio come ho affermato nella mia Biennale di Venezia del 2000 (Less aesthetics, more etics, n.d.r.). L’etica come capacità di prefigurare il futuro, costruendo la città per i suoi abitanti. Per questo mi lascio ispirare e osservo la moltitudine delle sensibilità che abitano il mondo. Mi interessa l’uomo non come turista, e quindi massa informe che colonizza il mondo, ma come individuo con la sua capacità di modificarsi, evolversi e sentire.